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La tragedia -
I primi soccorsi -
Le vittime -
I danni -
L'esodo |
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La voce popolare che si tramandava in Bagolino e le cronache scritte in seguito su quel tragico fatto,
successo nella notte dal 30 al 31 ottobre 1779, concordano
sia con i racconti di testimoni oculari, sia con le dettagliate
relazioni inviate al governo delle Repubblica di Venezia e alla Curia
di Trento.
La concomitanza di alcuni fenomeni, cioè una strana e persistente
siccità che durava da mesi e il vento che soffiava impetuoso da
alcuni giorni, concorsero in maniera determinante a provocare il
disastro. |
La tragedia
Tutto incominciò all'improvviso nel cuore della notte, quando alcune
scintille, uscite dalla canna del forno fusorio, appiccarono il
fuoco a due carbonili attigui. Il vento che turbinava nella valle vi
soffiava dentro come un mantice, facendo alzare folate di fumo,
scintille e sinistri fasci di luce. Subito accorsero i lavoranti del
ferro per sedare quel pericolo, ma l'acqua del Caffaro che veniva
gettata sulle fiamme, anziché spegnerle, sembrava attizzarle
ulteriormente. Due Fienili vicini avevano preso fuoco, e verso le
due di notte, un rabbioso sbuffo di vento, spinse le fiamme sopra il
paese, sui tetti delle prime case.
Sopraffatti dallo spavento, gli uomini del forno, accorsero al paese
per avvertire gli abitanti e salvare quanto era possibile.
Dall'alto del campanile le guardie continuarono fin che poterono a
suonare la campana a martello, facendo balzare la gente giù dai
letti, ma le fiamme, sospinte dal vento impetuoso, si erano già
propagate per tutto il paese grazie ai tetti ricoperti di scandole
ed i solai pieni di legna. Il vento, attratto da quella gran
combustione, aumentò di forza, attizzando l'incendio, che in poco
tempo avvolse tutto l'abitato in un intenso vortice. Il fuoco
arrivò fin sul dosso del convento e della chiesa e fin sul campanile
dove, consunte le travi, le campane precipitarono con terribile
schianto.
Dai solai la furia implacabile del fuoco incominciò a invadere
l'interno delle case; dalle porte e dalle finestre uscivano
nuvole di fumo accompagnate da crepitii e sinistri rumori di crolli.
Una massa di gente in preda al terrore incominciò a gettarsi dalle
finestre, a rovesciarsi per le strade, a cercare scampo all'aperto.
Uomini fuggivano portando a spalla vecchi e infermi, donne
trascinarsi dietro bambini in lacrime senza sapere come proteggerli
dalla fiamme. Mentre gli abitanti delle case periferiche trovavano
facile scampo nell' aperta campagna, chi si trovava fra gli stretti
vicoli, sbarrati dagli ammassi infuocati, serrato tra il fuoco, andò
incontro a morte inevitabile. Dall'elenco dei morti si rileva che i
più possedevano case all'interno o sulla via principale. Alcuni,
sorpresi nel sonno mentr'erano in casa, furono bruciati nei loro
letti; altri, trovata sbarrata ogni via d'uscita, salirono sui tetti
a trovar scampo, ma precipitarono in mezzo ai tizzoni sulla strada.
Quasi tutte le famiglie ricche fecero una brutta fine, trovate nelle
cantine delle loro case, dove si erano attardate ad ammassare roba
da salvare.
Finalmente, dopo sette ore, non avendo più nulla da bruciare le
fiamme si placarono. La luce venne a dare alla scena d'orrore una
dimensione spettrale di un paese abbattuto, immerso in un assurdo
silenzio.
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I primi soccorsi
Dalle montagne s'erano precipitati quelli rimasti nei fienili ed era
accorsa gente dai paesi della zona, messi in allarme dai bagliori
che avevano arrossato per tutta la notte i monti intorno. Ai primi
accorsi la situazione apparve subito in tutta la sua drammaticità,
gli scampati ormai laceri e ustionati, vagavano sbigottiti sul fondo
valle, ai margini del paese e tra le case incenerite. I soccorritori
dovettero aprirsi un varco tra le macerie alla ricerca di qualche
superstite, ma con costernazione non trovarono altro che morti per
le vie, nelle stalle, sotto le macerie ancora fumanti.
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Le vittime
Un'eco dell'entità del disastro si può cogliere anche nel numero
discordante delle vittime indicate dalle varie fonti. Secondo un'
iscrizione che si trovava sul muro dell'antica casa comunale furono
più di 260; stando invece ai dati ufficiali delle autorità venete
superarono i 500. Se in quest'ultima cifra si intese comprendere
anche quanti morirono in conseguenza di ferite, ustioni, per il
freddo e malattie, è questo il numero che si avvicina alla realtà.
Parecchie famiglie ebbero più di sei morti, altre perfino dieci.
Morirono otto preti e si estinsero cinque casati, tra cui quello dei
Foi e Dalumi.
I nomi conosciuti sono soltanto 176, che risultano dal libro
parrocchiale dei defunti, che vennero
inumati in una fossa comune sotto il portico della parrocchiale.
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I danni
Oltre all'ecatombe di vite umane, anche il panorama delle rovine
materiali fu impressionante. Eccettuate tre case a occidente sopra il
paese in località "Salvì", 644 furono le abitazioni
incenerite e 11 fienili vennero bruciati alla distanza di un miglio
verso Siano e Prada.
Il fuoco non ebbe barriere e si insinuo ovunque, nelle parti più
segrete, negli scrigni, fra i libri, bruciarono gli "Statuti della
Comunità di Bagolino", le Carte e le Scritture private delle
rispettive Famiglie, i Registri Notarili. Con la perdita di tutti i
prodotti caseari erano compromessi gli interessi della Serenissima
perchè Bagolino forniva un terzo del prodotto caseario bresciano. Il
patrimonio artistico - monumentale non andò totalmente perduto,
tuttavia subì gravi e profonde ferite. Nella Chiesa bruciò tutto il
tetto e il grande Organo di 520 canne disposte su sette ordini
costruito da Costanzo Antegnati nel 1590; andò distrutto l'archivio
parrocchiale con antichissimi codici, i libri dei privilegi, gli
inventari, i libri canonicali.
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L' esodo
Seppelliti i morti, la desolazione apparve in tutta la sua reale,
tragica ampiezza e nelle sue mille implicazioni materiali, morali e
sociali. Con la perdita delle case, ne i fienili, ne le baracche
possono essere barriere sufficienti contro le ingiurie del vicino
inverno incrudelito dalle nevi. I poveri e i nullatenenti si diedero
a cercare scampo nei paesi dei dintorni. Molti profughi si diressero
verso Lodrone e i paesi del Trentino, anche se le autorità Venete
non videro di buon occhio questo esodo, esortando la popolazione,
tramite il parroco, a trattenersi nella propria terra.
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